martedì 20 maggio 2014

Il Bambino Arrabbiato


Ci chiedono di non provare rabbia invece di insegnarci che la rabbia è un'emozione come un'altra. Ci dicono che è sbagliato lasciarla esplodere ma non ci aiutano a contenerla. Ci suggeriscono di non lasciarla covare dentro perché ci procura il mal di pancia o ci impedisce di concentrarci a scuola quando la maestra ci chiede di ricopiare la sua lezione dalla lavagna, ma non ci spiegano come fare a non inibirla.Ci dicono che è la rabbia è sbagliata, così come è sbagliato lasciarla implodere o esplodere, ma non ci insegnano a GESTIRLA. Non ci dicono che la rabbia si può raccontare, che la si può contenere, che è possibile metterle un limite; che il limite necessita di un supporto esterno e che gli adulti devono aiutarci a rispettarne i confini.
E allora accumuliamo rancori, censuriamo le frasi prima che abbandonino le nostre labbra e soffochiamo il nostro desiderio di ricevere un abbraccio rassicurante.
Subendo le loro etichette di "ribelle" "furbo" "manipolatore" "viziato" o semplicemente "capriccioso" quando ci va di lusso.
Finendo con il sentirci in colpa per essere così profondamente diversi da come i grandi ci vorrebbero, così terribilmente sbagliati da deludere le loro aspettative. Vittime di una spirale nella quale anziché essere aiutati ad approfondire le ragioni di quel fardello, veniamo colpevolizzati per le strategie che di volta in volta sperimentiamo per sopportarne il peso.
LA RABBIA INFANTILE 
La rabbia (come la paura e la tristezza), è una emozione primitiva osservabile sin dalle più precoci fasi dello sviluppo. Le modalità in cui si manifesta nei bambini sono strettamente connesse all'età e alla variabilità individuale. Nonostante sia un’emozione potente, in grado di creare un profondo malessere e disagio sia nel bambino che nel contesto che lo circonda, si registra una radicata tendenza a sottovalutarne la portata, con atteggiamenti di censura e/o di colpa. Quando un bambino arrabbiato non si sente riconosciuto in quel vissuto negativo, tende a riproporre assiduamente proprio quei comportamenti che l’adulto gli chiede di interrompere,alimentando un circolo vizioso che inficia in modo consistente anche la relazione affettiva.
C’è una tendenza diffusa a focalizzarsi sul comportamento problematico (aggressività nei confronti dei coetanei, disinteresse per la scuola, rifiuto di portare a termine le consegne) anziché sull'emozione negativa sottostante che l’ha causato e che contribuisce a farlo perdurare. Per interrompere il circolo vizioso descritto sarebbe invece più proficuo soffermarsi sull'emozione negativa sottostante al comportamento manifesto (aggressivo, violento o addirittura francamente disfunzionale) che s’intende correggere.

Gestire la rabbia: i passi fondamentali

Consentire al bambino di esprimere quello che prova è il primo passo per evitare che la rabbia continui ad essere “agìta”; incoraggiarlo ad esprimerla attraverso le modalità a lui più congeniali (il disegno, il gioco, la favola …) riveste già di per se una prima importantissima funzione “catartica”. Un bambino lasciato invece in balia delle sue emozioni negative può sperimentare vissuti di frustrazione, disorientamento, angoscia, in quanto privo di strumenti adeguati (che invece dovrebbe possedere l’adulto) a controllarle e contenerle. Un obiettivo altrettanto essenziale è quello di approfondire le ragioni che hanno determinato quel vissuto, affinché il bambino possa imparare ad instaurare le corrette correlazioni di causa - effetto tra la realtà esterna e il mondo interno. Tale passaggio veicolerà ai più piccoli un messaggio indispensabile: le emozioni non si possono e non si devono negare; è propedeutico accettarle per elaborare strategie difensive adeguate (per S. Freud ad esempio l’umorismo era tra le più evolute) per gestirle. Provare ad ignorare la rabbia serve solo a renderla, se possibile, ancora più potentedarle un nome, aiuta a riconoscerla e a fronteggiarla. I bambini vanno sostenuti sin dalla più tenera età in questo delicato processo di riconoscimento delle proprie emozioni (anche di quelle a versante positivo): la comunicazione dovrebbe sempre essere focalizzata sulla dimensione emotiva; chiedere al bambino se è arrabbiato dopo un rimprovero, se è triste per aver ricevuto una nota di demerito a scuola, se è spaventato dopo un brutto sogno, facilita il contatto con la sua sfera intima, promuove quello che Bandura definiva il senso di auto – efficacia, nutre l’autostima. L’acquisizione di tali competenze emotive ha inevitabilmente anche una felice ricaduta sulle capacità cognitive del bambino, favorendo l’attenzione e la concentrazione e predisponendo in modo favorevole all'apprendimento. Dare un nome alla rabbia aiuta anche a non identificarsi con essa, alimentando ulteriori circoli viziosi negativi.
Un ultimo passaggio imprescindibile del processo (che dovrebbe accompagnare tutte le fasi dello sviluppo) di quella che potremmo definire “educazione emotiva”, consiste nell'elaborazione di strategie funzionali (che possano sostituirsi ai comportamenti problematici) per GESTIRE la rabbia, evitando di lasciarla esplodere in modo indiscriminato oppure implodere (generando in questo secondo caso ad esempio, manifestazioni di tipo psicosomatico). La capacità di gestire un’emozione negativa non può prescindere dalla necessità di stabilire un LIMITE, senza il quale il comportamento problematico che s’intende correggere rischia addirittura di cronicizzarsi. Fare questo, significa, in termini pragmatici, pensare insieme a dei modi alternativi e funzionali per incanalare la rabbia e sostenere il bambino nella traduzione di tali propositi in comportamenti accettabili.

Una sequenza clinica esemplificativa

Una coppia si rivolge ad uno psicologo per richiedere una consulenza per la figlia maggiore, Giulia, di 8 anni. Da tre settimane la bambina mostra insofferenza verso i familiari e le insegnanti, aggredisce i coetanei e si rifiuta di portare a termine anche le più piccole consegne sia a casa che a scuola. La raccolta anamnestica e la somministrazione di una batteria di test adeguati all'età, fanno emergere un intenso vissuto di rabbia legato alla fantasia di essere “una figlia non desiderata e non amata quanto la sorella minore”. Quest’ultima, affetta da importanti problemi di salute, è costretta a periodici ricoveri, che la legittimano (nell'immaginario di Giulia) a “strapparle” la mamma per averla tutta per se. L’ultimo periodo di ospedalizzazione della sorella (poco prima dell'insorgenza del malessere di Giulia) ha coinciso anche con alcuni momenti  di vita importanti per la bambina (una recita scolastica, il saggio di danza, il ritiro della pagella): non aver potuto condividere tali traguardi con la madre ha generato nella bambina i vissuti di rabbia e i conseguenti comportamenti improntati all'aggressività e alla ribellione. Nel colloquio di restituzione alla famiglia (dei contenuti emersi durante la fase di valutazione), lo psicologo guida la bambina ad esprimere tali sentimenti; lo fa con usando un linguaggio consono all'età e alla sua sensibilità; rispettando i suoi tempi e creando un setting emotivamente accogliente ed empatico. Giulia, per la prima volta, riesce a raccontare quello che prova, a dare voce alla sensazione di essere rifiutata e non sufficientemente amata; confessa di aver accusato malesseri fisici (mal di pancia e mal di testa) in più occasioni solo “per essere coccolata come mia sorella”; racconta di aver aggredito fisicamente la sua compagna di scuola perché l’avrebbe derisa durante la recita scolastica per essere stata accompagnata dalla zia e non dalla mamma come tutte le altre bambine. Permettere a Giulia di prendere contatto con le proprie emozioni, di raccontare la propria rabbia, di nominarla, ha consentito alla bambina di sentirsi sollevata e ai genitori di comprendere la sofferenza di quella che definivano “una bambina ribelle, pigra e manipolatrice”. La coppia viene invitata a distinguere il comportamento dalla persona che lo mette in atto; un principio questo che dovrebbe guidare ogni intervento educativo e che invece viene spesso sottovalutato: bisognerebbe sempre denigrare l’atto (“hai avuto un comportamento aggressivo, offensivo, prepotente, deplorevole…”) non l’autore (“sei cattivo, prepotente, incapace, ribelle, manipolatore"); far divenire l’oggetto della critica e della svalutazione la persona, piuttosto che il suo comportamento, è il modo migliore per impoverire l’autostima e spingere il bambino ad identificarsi con quello che fa, piuttosto che comprendere l’emozione che lo spinge a comportarsi in quel modo.
L’acquisizione di tali consapevolezze, consente alla coppia di sintonizzarsi sui bisogni della figlia e di elaborare con lei strategie funzionali a superare quei sentimenti così opprimenti. In una prima fase di intervento, si decide di riservare alla relazione madre - figlia alcuni momenti di totale esclusività (ad esempio con la lettura di una fiaba prima dell’addormentamento). Contestualmente, l’intervento professionale dello psicologo si pone un duplice scopo: da un lato, aiuta la bambina a superare i suoi vissuti legati alla rivalità fraterna; dall'altro (a seguito di alcuni importati elementi che, emersi nella fase di valutazione, avevano acquisito il valore di fattori di mantenimento del disagio della piccola), sostiene la coppia genitoriale nel delicato compito di accettare la disabilità della figlia minore, liberandosi del senso di colpa ad essa connesso (dovuto principalmente alla fantasia della madre di aver commesso qualche leggerezza nel periodo della gravidanza).
In uno degli ultimi incontri con lo psicologo, il papà chiede alla figlia come mai non avesse mai detto tutte quelle cose prima di allora; saperle avrebbe permesso loro di rassicurarla subito. La bambina guarda il padre, accenna un mezzo sorriso e con aria saggia gli risponde "Perché voi non me l'avete mai chiesto!"

5 commenti:

  1. Un articolo molto interessante con molti spunti di riflessione!

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  2. Mio figlio ha tre anni. Non vuole stare con nessuno oltre a me e al papà. Io non vado daccordo con i miei suoceri e inizio a penare che il bambino sente la tenzione. Mi sento in colpa e non vorrei che lui scontasse i nostri litigi. un amica mi ha consigliata uno psicologo da cui porta la figlia perchè ha problemi con il cibo. Me ne ha parlato bene ma mi ha detto che non posso portare il bimbo da sola perchè deve venire per forza mio marito. Io non vorrei dirgli questa cosa perchè lui è un po negato per questo genere di cose. E' vero che non posso prendere appuntamento da sola?

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    1. Per richiedere una consulenza psicologica per un minore è necessario che a manifestare il consenso (in forma scritta) siano entrambi i genitori (o chi ne fa le veci). Al di là degli aspetti formali e deontologici, sarebbe auspicabile per la riuscita stessa dell'intervento, contare sulla collaborazione ed il coinvolgimento di entrambi ii genitori. Immagina di chiedere a tuo figlio di non riferire al padre che la mamma lo porta da uno psicologo: ti sentiresti di affermare che la tua richiesta non metterebbe in difficoltà il bambino? Che il piccolo non rischierebbe di percepire "un conflitto di lealtà" nei confronti di papà e mamma? Che una situazione di questo tipo, da cui il papà sarebbe estromesso non rischierebbe di "fargli scontare le vostre difficoltà coniugali"? Prova a parlarne a tuo marito, a spiegare le tue preoccupazione, a proporgli di cercare insieme il professionista adatto ad aiutare la vostra famiglia in questo momento di difficoltà: potresti scoprire con sorpresa che condivide la tua scelta. In alternativa potreste cercare insieme un modo altrettanto efficace per mobilitare tutte le vostre risorse genitoriali e indirizzarle verso lo scopo comune..

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  3. Buongiorno dottoressa,
    ho letto l'articolo e ho avuto modo di apprezzare la chiarezza e la semplicità nell'esposizione. Per ogni genitore credo che ogni giorno la sfida educativa diventi più grande: la scuola delega, la parrocchia e l'oratorio non sono più quel luogo di aggregazione che erano ai miei tempi, le nuove tecnologie rendono impossibile controllare quello che fanno i figli. Perciò spesso anche i loro comportamenti preoccupanti (siano essi di rabbia o di altro tipo) sono difficili da decodificare; a noi genitori mancano troppe informazioni sulle loro vite per riuscire a coglierne la radice. E anche l'ipotesi di rivolgersi ad un esperto la si vive (almeno nel mio caso) con un senso di fallimento. La ringrazio in anticipo di un'eventuale risposta. La saluto

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    1. Salve Marco e benvenuto.
      Condivido pienamente e sottoscrivo la "fotografia" dell'attuale situazione sociale. Aggiungo però, che tale lettura, per quanto sconfortante, non deve farci scivolare in un' aprioristica rinuncia pedagogica! Questo sarebbe, tra tutte le scelte possibili, quella veramente fallimentare! Grazie per l'acuto contributo e per gli spunti di riflessione.

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